Le Interviste di ROBERTO SARDELLI Intervista ad Andrea Berton |
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luglio 2005 Correva l’anno 1999. Sono già passati sei anni da quando con il nascere della televisione digitale, si affacciò dal canale di Eurosport, una voce inedita a parlare di ciclismo. Era una voce giovane, ben scalfita, un mix tra telecronista e deejay. Il ciclismo assomma su di sé componenti positive e negative, ma da qualunque parte lo si voglia vedere, il conservatorismo è un elemento insito nel DNA di questo sport. Eurosport con la voce vibrante ed incisiva di Andrea Berton, stava uscendo dagli schemi tradizionali entro i quali si era mosso sino ad allora lo sport delle due ruote, da troppo tempo abituato alla voce calda e pacata di Adriano De Zan. Oggi, dopo sei anni di telecronache, possiamo dire che Eurosport ha vinto la sua scommessa. Berton è diventata ormai un icona del ciclismo ed è richiesto anche per eventi importanti, extra agonistici, come la festa di addio di Andrea Tafi o il recente “Mybike” di Montecatini Terme. «Io non potevo, ma soprattutto non dovevo assomigliare a De Zan. Tengo a dire con la massima sincerità che Adriano De Zan è stato il più grande ed io impazzivo ad ascoltarlo. Mi piaceva moltissimo la sua voce ed ancora di più ho sempre ammirato la sua immensa professionalità. Un dono di natura, un talento. Se Cipollini era nato per fare le volate, De Zan era nato per fare le telecronache». Con tutta questa stima, perchè non cercare di imitarlo allora? «Proprio perchè ne sarebbe uscita sicuramente una brutta copia del suo talento. Io credo senza presunzione, di essere dotato sin da quando ero molto giovane, di una buona attitudine ad imitare. A scuola mi piaceva imitare i professori. Mi veniva proprio naturale la ricerca dell’imitazione. Al mio debutto come telecronista di ciclismo, avevo proprio il timore, avendolo ascoltato per tanti anni, di cadere senza volerlo, nell’imitazione di Adriano De Zan. Ne sarebbe ovviamente uscita fuori una imitazione peggiore dell’originale, avrei rischiato di cadere nel ridicolo. Ho cercato allora di usare sin da subito il mio stile, il mio modo di parlare e di esprimermi, mettendo comunque a frutto tutto quello, ed era veramente tanto, che avevo appreso in tutti quegli anni di telecronache dell’indimenticabile Adriano». La scelta del ciclismo è stata casuale o si è trattato di una scelta sincera? «il ciclismo è lo sport che da sempre, mi ha appassionato più di tutti. Non è stata assolutamente una scelta casuale. Eurosport mi aveva chiamato per fare le telecronache delle partite di calcio. Io volli però precisare da subito che volevo fare ciclismo. Non è che non mi andasse il calcio, ma non potendo fare tutto, ritenni opportuno scegliere il ciclismo». A quando risale la tua passione per il ciclismo? «Posso dire che il primo vero flash l’ho avuto ad otto anni. Era l’ultima tappa del Giro d’Italia 1979 Cesano Maderno-Milano. Ero con il mio papà. Anche se i ricordi sono piuttosto vaghi, ricordo che vidi passare una sagoma rosa. Era Saronni che conquistando quella tappa a cronometro, si aggiudicava anche il suo primo Giro d’Italia. Da allora Giuseppe Saronni divenne il mio idolo. A seguire, vissi poi un po’ più grandicello, quello che a tutt’oggi reputo uno dei gesti sportivi più entusiasmanti: il Mondiale di Goodwood del 1982. Nella mia personalissima scala valori, la vittoria di Saronni in terra inglese, valeva molto di più di quella ottenuta due mesi prima dalla Nazionale di calcio in Spagna. Lo scatto di Saronni fu imperioso e travolgente. Uno di quei gesti che non ti stanchi mai di vedere e di rivedere al replay. Saronni è stato un grande campione. Vinceva le volate di gruppo, aveva un modo di fare gli sprint incredibile. Poi, andava forte a cronometro, in salita, nelle corse in linea ed in quelle a tappe. Mi viene da dire che poteva vincere molto di più». E dopo, quali sono stati i campioni che ti hanno conquistato il cuore? «Dopo Saronni, sono stato tifoso di Flavio Giupponi, di Chiappucci e di Pantani. Anche se il tifoso di ciclismo è un po' particolare e salvo casi di acerrime rivalità tifa un po' per tutti». Un modo di essere e di correre quello del bergamasco, profondamente diverso da quello degli ultimi due. «Giupponi proveniva però dalle squadre di Saronni: la Del Tongo prima e la Malvor Sidi Colnago poi. Per diversi anni fu il miglior italiano nella Classifica Generale del Giro d’Italia. Ottenne poi un ottimo secondo posto nel 1989 vincendo la tappa di Corvara sotto la pioggia e la neve. Era un regolarista. Anche se magari non attaccava mai, nelle tappe di salita che contavano, c’era sempre». Ed oggi, si può dire verso quali corridori sono orientate le tue simpatie? «Oggi non ho un campione preferito in assoluto. Non dico questo per fare il diplomatico. Mi è piaciuta tanto la vittoria di Savoldelli al Giro. Apprezzo la signorilità ed il modo di proporsi di Ivan Basso. Io non giudico i campioni solo per la disponibilità che essi hanno con i giornalisti. Sarebbe un modo riduttivo e del tutto sbagliato. Però l’eleganza di Ivan Basso è una cosa del tutto particolare. Allo stesso modo, anche se un po’ diverso nei modi, ma sempre estremamente gentile, è Paolo Savoldelli. La sua vittoria nel Giro di quest’anno, lo ripaga di tante sfortune. E poi non posso non citare Bettini un campione anche quando non è in bici... anche se il mio sogno resta quello di vedere il gregario Bramati vincere il Tour de France...». In questi sei anni di esperienze televisive, sempre in contatto comunque con il ciclismo ed i corridori, come pensi sia cambiato questo sport? «C’è stato un gran trambusto con le vicende legate al doping che sicuramente è cambiato molto. Io credo di poter dire senza ipocrisia che oggi è un po’ più pulito. Non significa con questo che il cancro del doping è stato sconfitto. Questo credo che purtroppo non avverrà mai. Sia nel ciclismo, che in tutte le altre discipline sportive. Oggi però bisogna anche dire che i corridori arrivano al traguardo con la lingua di fuori. La fatica è palese sui lori volti. C’è stato un periodo che andavano tutti come moto, anche quelli più scarsi. Oggi è sicuramente più facile distinguere già a colpo d’occhio i campioni dagli altri corridori». Tra le due grandi gare a tappe, Il Tour ed il Giro, ritieni che il “gap” sia incolmabile oppure grazie allo spettacolo che è riuscito ad offrire quest’anno il Giro d’Italia, il divario tra le due competizioni può essere ridotto? «Secondo me, una delle ragioni principali per cui il Tour negli ultimi 15 anni ha fatto uno scatto in avanti rispetto al Giro, è dovuta alla spettacolarità delle immagini televisive che riesce a divulgare. Mi dispiace doverlo dire, può sembrare inelegante da parte mia dato che lavoro per la concorrenza e questo non è nel mio stile, però dico quello che penso: secondo me la RAI è un po’ arrugginita nel modo di riprendere il ciclismo e di proporlo. Parlo della scelta delle grafiche, della “pasta” televisiva, delle immagini, della capacità di individuare subito che cosa dover far vedere durante l’azione di un corridore o di un altro. Tutto questo pesa ed ha pesato molto negli anni. Le immagini del Tour de France sono fantastiche per i colori, la lucentezza, le grafiche scelte e soprattutto per la grande abilità dei registi di saper cogliere sempre l’attimo giusto. I francesi sono stati bravi soprattutto in questo. Oggi la televisione ha un potere immenso ed è soprattutto grazie a questo che il Tour ha visto crescere il suo divario rispetto al Giro. Ci sono poi una serie di ragioni ulteriori. Bisogna anche dire che in Francia il mese di luglio è un mese di vacanze e moltissime persone si riversano sulle strade del Tour, non solo negli week-end. In Italia invece, maggio è un mese dove si lavora a pieno ritmo e l’attenzione e la partecipazione degli appassionati rischia di ridursi ai giorni di sabato e domenica. Un altro motivo del prestigio del Tour è caratterizzato dal numero di campioni che si presentano ai nastri di partenza. Armstrong è un perosnaggio di tale levatura che già da solo riesce a catapultare un’attenzione fuori del comune. Il prestigio crea prestigio. Un’importante effetto domino in positivo. Del resto, anche la differenza nei punteggi che il Pro Tour assegna alle tre grandi gare a tappe sta a dimostrare queste teorie. Terrei tuttavia a precisare che non trovo giusto la stessa assegnazione di punteggio tra il Giro e la Vuelta. La nostra corsa vale molto di più rispetto a quella spagnola». Una grande gara a tappe può offrire il dominatore assoluto come nel caso di Armstrong o vivere nell’incertezza sino all’ultimo, come è avvenuto quest’anno nel Giro d’Italia. Qual è la circostanza che un telecronista ama di più commentare tra le due? «Non c’è dubbio che una corsa incerta ed agonistica sino alla fine sia più bella da commentare, rispetto ad una con esito scontato. È sicuramente più divertente anche per chi la racconta». Quando però a vincere era Pantani, sembravano scaldarsi di più anche i telecronisti. In fondo, non erano scontate anche le sue vittorie? «In questo caso però, entra in ballo il modo con il quale uno vince. Pantani poi, non ha vinto sei Tour come Armstrong. Il texano non vince allo stesso modo con cui vinceva Pantani. Si viveva con trepidazione l’attesa del momento in cui Marco avrebbe staccato gli avversari. Pantani non staccava gli avversari a cronometro come fa Armstrong. Per lui diventava inevitabile attaccare in salita. I suoi attacchi erano del tutto particolari e seguivano una ritualità nei gesti: il getto della bandana ed a volte, anche quello dell’orecchino». Quest’anno con il debutto del Pro Tour, anche il palinsesto ciclistico di Eurosport sembra essersi arricchito. Nel suo complesso, come vedi questa riforma? «La ritengo una buona riforma. È da molto tempo che noi giornalisti, addetti ai lavori ma anche i semplici appassionati, si andava dicendo di non capire più nulla con la miriade di corse presenti sul calendario. Non si riusciva più ad affezionarci ad un corridore perchè tutti facevano tre corse all’anno, si preparavano scrupolosamente per quelle e poi si nascondevano per tutto il resto della stagione. È chiaro che nemmeno il Pro Tour risolve tutto questo, però credo che sia stato fatto un importante passo avanti. Non tutti possono essere d’accordo, è un progetto che forse andrà migliorato, ma è comunque innegabile che si è trattato di una scelta coraggiosa. Si tratterà poi di mettere definitivamente d’accordo tutte le componenti. Giustamente, gli organizzatori non vogliono rischiare di impoverire il loro ruolo a tutto vantaggio dell’UCI e del Pro Tour. Bisognerà sicuramente evitare che succeda quello che avviene in Formula 1 con Bernie Ecclestone che può decidere a suo esclusivo piacimento se continuare con il G.P. di Monza oppure no. Sarebbe un peccato che un domani l’UCI decidesse di andare in Germania perchè c’è più pubblico e magari più sponsor e togliere magari il Giro o la Vuelta dal Pro Tour. La tradizione deve avere il suo valore e sarà opportuno chiarire meglio tutto questo». Come dovrebbero comportarsi allora, anche da un punto di vista televisivo, tutte le altre corse al di fuori di questo progetto? «Io credo che bisogna dare ad ogni corsa una propria dimensione. Per fare degli esempi, sono costretto a fare dei nomi. Nemmeno prima il Trofeo Laigueglia valeva la Milano-San Remo. Credo però che con lo sviluppo della tecnologia digitale e con l’avvento di nuove realtà come Sport Italia che trasmette in chiaro, ci possono essere già da oggi delle valide soluzioni. Del resto, bisogna chiarire una cosa: la produzione di un evento ciclistico televisivo costa moltissimo. Riprendere una corsa categoria 1.1, così come viene fatto per la San Remo credo sia improponibile per qualsiasi televisione. Nessuno potrà mettere a disposizione di queste competizioni, elicotteri, aeroplani, telecamere fisse ed in moto, con una tecnologia che costa moltissimo. Si possono però realizzare delle riprese registrate, proporre in differita spezzoni di gara, servizi ben fatti, una specie di “magazine”. Esiste già su Sport Italia un “magazine” sul ciclismo, seguito da Fabio Panchetti. Le alternative ci sono». Tornando a te invece, è bene chiarire che il tuo ruolo non si limita alla collaborazione con Eurosport. «No, oggi sono anche e soprattutto il Responsabile della Redazione Sportiva di CNR, la syndication radiofonica del gruppo RCS, che è stata anche media partner del Giro d'Italia. È un ruolo che ricopro ormai già da tre anni». Qual è stata in questi anni la telecronaca che ti ha coinvolto ed emozionato di più? «Non posso limitarmi ad un singolo episodio. Potrei citare il Giro delle Fiandre di Andrea Tafi nel 2002. Ancora oggi , sono molto legato ad Andrea. In quella circostanza, ero stato ospite da lui sino a due giorni prima di quella corsa. Alla vigilia, per telefono, mi aveva invitato ad osservarlo bene durante la corsa. Lo sentii molto convinto di far bene già al Fiandre, anche se magari i più lo aspettavano invece la domenica successiva alla Roubaix. Un altro bellissimo evento è stato sicuramente il Mondiale di Zolder. Anche se tecnicamente non era tra i più entusiasmanti a causa del percorso troppo facile, si trattò comunque di un capolavoro tattico della nostra nazionale. Fui molto contento anche per Franco Ballerini, una persona che stimo moltissimo. Zolder rappresentò poi la definitiva consacrazione di Mario Cipollini, un fenomeno del ciclismo. E poi l’Olimpiade di Atene. Se il sogno di un atleta di qualsiasi disciplina è vincere l’Olimpiade, il sogno di un telecronista è quello di commentare l’oro olimpico nello sport che più ama. Tra l’altro Bettini è ad oggi uno dei miei corridori preferiti. Splendido sia come atleta che come persona». In precedenza hai parlato della tua ammirazione per Adriano De Zan. Hai avuto mai, modo di parlargli? «Poche volte purtroppo. I primi anni seguivo le corse soprattutto dagli Studi di Eurosport e le occasioni per incontrarlo erano veramente rare. Ricordo però che una volta mi telefonò per chiedermi se poteva avere Saligari al suo fianco a commentare una corsa, mi sembra il Giro del Friuli. Fui molto felice di poterlo accontentare ed anche Marco fu molto soddisfatto. Più tardi, quando sembrava che stesse per sganciarsi dalla RAI, ci furono dei contatti con Eurosport ma poi però non se ne fece nulla. Per me sarebbe stato bellissimo lavorare con lui». Che cosa rimpiangi del suo periodo, che pensi che tu non possa mai avere? «Aldilà
delle doti e della innegabile bravura di Adriano, credo
che lui abbia avuto anche la fortuna di aver vissuto in
un’epoca in cui c’erano ancora le “penne nobili” di questo
sport, i veri cantori del ciclismo. Vivere a fianco di
tali personaggi, rappresenta sicuramente una scuola eccezionale
cui attingere esperienza. Anche all’interno della RAI,
c’erano telecronisti che solo a sentirli parlare, trasmettevano
emozione. Nando Martellini è ancora oggi
nel cuore di tutti noi. A me poi, è piaciuto moltissimo
anche Bruno Pizzul. Aveva uno stile, una sobrietà,
una pulizia di linguaggio, veramente ottimi. Credo che
la vecchia scuola RAI sia stata straordinaria.
De Zan è stato però il più
incredibile tra tutti. Credo di avere imparato molto da
lui, anche se magari non si sente». |
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